Siamo circondati da colossi della moda, che siano del lusso, del fast fashion o del ready to wear. Nonostante si continui a parlare di dare spazio a nuovi modelli di business, la verità è che la dimensione fa la differenza: essere grandi significa avere maggiore visibilità, maggiore potere contrattuale, più soldi da investire in comunicazione. Non è un Paese per designer indipendenti, potremmo dire; ma non è solo un problema dell’Italia.

Perché è così difficile stare sul mercato se si è un brand indipendente? Innanzitutto perché anni di produzione low cost hanno completamente confuso il consumatore sul costo reale di quello che viene indossato. Una scarsa conoscenza dei materiali e dei processi, porta a ritenere ingiustificato il prezzo di un capo che si trova sul mercato a un costo medio. Ma medio rispetto a cosa?
Se si è un brand indipendente e si produce in Italia, da una filiera controllata e responsabile, con materiali accuratamente selezionati, è normale che il costo non possa essere quello di un prodotto di massa. Ma è un concetto difficile da capire, perché spesso il consumatore non sa quanti step di lavorazione ci sono dieto la produzione di un tessuto, quanti accessori e quanto lavoro sono necessari per produrre un capo. Se non sai com’è fatta una cosa, non la puoi valorizzare.
Quindi il prezzo è la prima cosa che rende difficile per un brand indipendente restare sul mercato. La pandemia non ha reso le cose più semplici e qualcuno si è arreso.
Allo stesso tempo un brand indipendente ha bisogno di farsi conoscere per essere acquistato e questo è un altro punto difficile: non ha la potenza di fuoco di un brand e spesso i concetti che un brand indipendente deve comunicare non sono così immediati. C’è chi lavora solo con i deadstock, chi su ordinazione; qualcuno sceglie uno stile senza tempo, per evitare la sovrapproduzione, altri sono legati a progetti sociali. Ci sono esperienze diversissime, che hanno bisogno di essere comprese per essere valorizzate…ed acquistate. Però quando ci si è preso il tempo di capire cosa si sta acquistando, magari è più semplice mettere in atto un legame, che può trasformarsi in quella che oggi si chiama “durabilità emotiva”: un capo per durare a lungo deve essere amato, non deve solo essere costruito per durare.
Un grande aiuto per farsi conoscere può venire dai social, ma i nuovi meccanismi dell’algoritmo richiedono grossi investimenti, per raggiungere un po’ di visibilità. Secondo un’indagine americana gli annunci di Facebook sono aumentati del 61%, gli annunci di Google del 75% lo scorso anno e continuano a salire.
Per fortuna al di là delle sponsorizzazioni, i social sono anche in grado di creare delle community, e i brand indipendenti hanno in questo un punto di forza. Costruire relazioni facendo leva su valori comuni, riconoscersi in un gruppo di persone che intorno all’etica di un brand riesce a trovare una propria identità.
E’ importante però metterci la faccia: questo ha fatto Gaia Segattini, con il suo brand di maglieria che utilizza filati deadstock, che avevo intervistato in questo episodio del podcast. E’ complicato sintetizzare in poche parole il lavoro che fa Gaia, perché è un’artigiana e una persona straordinaria, che ha creato intorno a sé un’attivissima comunità di donne che si riconoscono nel suo stile lontano dai trend. E quando Gaia ha deciso che voleva far fare un passo avanti al suo business cosa ha fatto? forse la cosa più naturale, ha chiesto al suo pubblico di sostenerla.
La campagna di equity crowdfunding è attiva da tre settimane ed ha già raggiunto risultati favolosi: ecco il link. Ed è un ottimo esempio da seguire per i brand indipendenti: se si opera in un mondo che valorizza solo i grandi numeri, quello che un designer può fare è fare leva su quell’autenticità e quella spontaneità che un grande brand non può permettersi. Creare una community, mettersi in gioco e poi crescere insieme, perché sono certa che chi ha dato il proprio contributo al crowdfunding di Gaia è anche orgoglioso di quello che ha fatto, si sente un po’ parte di una storia.
Non tutti vogliono diventare grandi, c’è chi opera in una nicchia, ci sta bene e ha il diritto di continuare a farlo. E per questo va sostenuto.
COSA STA ACCADENDO NEL FASHION DISTRICT DI LOS ANGELES C’è un disperato bisogno di alloggi a Los Angeles e il Comune sta cercando una soluzione da anni. In una zona centrale della città, c’è il Fashion District, il cuore della produzione di abbigliamento, l’unico distretto con questa specializzazione rimasto pienamente operativo negli Stati Uniti.
Per la municipalità la soluzione appariva semplice: da una decina d’anni si parla di spostare il Fashion District in una zona meno centrale e dedicare quegli spazi liberati a nuove residenze, negozi, locali. Ma l’operazione non è per niente semplice, perché i lavoratori del Fashion District sanno quanto sia importante il loro lavoro in questo momento e non vogliono scendere a compromessi. Entro il 12 maggio dovrebbe avvenire la votazione in consiglio comunale sul piano per riorganizzare l’area.
Ad oggi qui lavorano 20 mila lavoratori, che operano in 1400 aziende. In quest’area è possibile trovare tutte le competenze che servono per confezionare un capo, dai modellisti alla stiratura, per non parlare degli accessori. Nei dintorni del Fashion District vivono anche centinaia di famiglie che operano nel distretto e che non sono disponibili a uno spostamento che avrebbe un impatto pesante sulle loro vite.
Intanto a livello nazionale si sta combattendo per preservare la produzione loclae negli Stati Uniti, attraverso una legislazione federale come il FABRIC Act, che è stato introdotto lo scorso maggio dal senatore Kirsten Gillibrand, un democratico di New York. La legge mira a incentivare la produzione domestica di indumenti a livello nazionale e rafforzare le tutele dei lavoratori.
L'83% della produzione nazionale di abbigliamento negli Stati Uniti avviene a Los Angeles, quindi senza misure in atto per proteggere il distretto, le possibilità di potenziare il settore a livello nazionale si riducono. Secondo il World Trade Center di Los Angeles, l'abbigliamento è il secondo settore manifatturiero della città, con un valore di circa $ 11 miliardi all'anno.
Il Fashion District è uno dei due centri principali per la produzione nazionale di abbigliamento nel paese. New York City ruba le luci della ribalta per i suoi stilisti e la settimana della moda di fama mondiale, ma la maggior parte dell'abbigliamento di produzione nazionale è realizzata a Los Angeles.
Negli ultimi anni, il Fashion District è diventato un hub per la moda sostenibile, attirando produttori di abbigliamento che hanno fondato start up, ma anche con l’arrivo di aziende già operative che hanno deciso di spostarsi nell’area, per una produzione a chilometro zero.
Insomma, gli USA hanno intenzione di riscoprire e valorizzare la propria anima manifatturiera. La decisione del Consiglio Comunale di Los Angeles sicuramente fornirà un segnale di quanto questa volontà sia forte e di quali siano le priorità in questo momento di transizione.
SAPETE RICONOSCERE UNA BORSA DI LUSSO DA UN FAKE? Non dovrebbe essere così difficile capire la differenza tra una borsa da 10.000 dollari e la sua imitazione da 100 dollari, ma non è per niente scontato. Lo ha raccontato il New York Times questa settimana.
Negli ultimi anni c’è stata una rapida ascesa delle borse "superfake", riporta il New York Times, con un'ondata di falsari cinesi è diventata molto abile nel copiare borse di Chanel, Gucci, Hermes, Louis Vuitton e altro ancora. Vengono usati i materiali migliori e tecnologie di produzione sofisticate e sono realizzate da mani esperte. Sono praticamente perfette. Questo ha reso sempre più difficile anche per un occhio ben allenato distinguere tra il vero e il falso.
Un autenticatore anonimo di The Real Real ha ammesso al Times che le imitazioni "stanno diventando così buone che svelarle diventa una caccia che richiede tempo”.
Non solo: il mercato dei fake è diventato anche molto veloce. E’ possibile che alcune borse siano replicate anche nella loro stagione di uscita. I brand del lusso stanno cercando di correre ai ripari, ma non è semplice. Negli USA nel 2022 sono stati confiscati 300 mila borse e portafogli, ma le autorità cinesi non sono così solerti.
Anche se le autorità decidessero di sorvegliare con maggiore decisione il mercato nero, sarebbe comunque difficile interrompere la catena di approvvigionamento dei produttori di borse contraffatte, puntualizza il New York Times. Questo perché si tratta di operazioni di dimensioni ridotte, che si basano su una serie di nodi interconnessi: marketing, finanziamento, progettazione e produzione. Se si colpisce uno di questi e si elimina, gli altri rimangono e sostituiscono rapidamente quello che hanno perso.
Ma il consumatore che è disposto a compare una borsa originale e che non vuole acquistare un fake, come può esserne sicuro? Acquistando dai siti ufficiali dei brand, conclude il giornale americano. E il consumatore che può comprare a un decimo del suo costo una borsa perfetta, cosa sceglierà?
Vi lascio sempre con qualche domanda e forse con poche risposte. Ve ne faccio un’altra: avete già bevuto il vostro caffè?
Buon weekend
Da leggere:
1. Le collezioni green per l'estate, l'artigianato iperlocal da e le iniziative per una moda più etica delle maison (e non solo) - Vogue Italia
Primaloft lancia un isolante realizzato con rifiuti di plastica recuperati dal mare - Fashion Network
Moda e parità di genere: solo 2 donne su 10 nei cda - Fashion Magazine
Africa: culla di creatività e fashion designer - La Svolta
La prossima settimana sarò a Porto per partecipare all’iTechStyle Summit. La conferenza analizza le connessioni tra la moda e l’innovazione digitale, due mondi che stanno stringendo connessioni sempre più strette: basti pensare al Digital Product Passport.
Nella mia relazione parlerò dei Sottoprodotti Tessili, della loro tracciabilità, del loro riuso, anche in ottica di ecodesign. Vi presenterò il mio lavoro nel prossimo numero del MAG, la newsletter monotematica di Solo Moda Sostenibile riservata agli abbonati. Dovrebbe uscire il 15 maggio.
Se sarete a Porto, scrivetemi, così avremo occasione di incontrarci. Se non ci sarete, scrivetemi lo stesso. Ecco la mail: silvia@solomodasostenibile.it
Non mi sono dimenticata i vostri amati episodi del podcast. Ne sto preparando due, spero di proporvi il primo al più presto, ma non so se riuscirò la prossima settimana.
Vi auguro un buon weekend, mi raccomando cercato di splendere!
Sui designer indipendenti hai esattamente descritto la mia situazione. grazie che ne parli!