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#109 "Hey Fashion", è l'ora di darsi una svegliata
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#109 "Hey Fashion", è l'ora di darsi una svegliata

La newsletter di Solo Moda Sostenibile

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Jul 9
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#109 "Hey Fashion", è l'ora di darsi una svegliata
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Dopo la parola “sostenibilità” è “circolarità” quella che oggi è più abusata, creando una grande confusione. Alcuni miti da sfatare: utilizzare materiali riciclati non è fare economia circolare, a meno che non si accompagni a una strategia che parte dalla progettazione e che tenga conto di diversi cicli di vita. E la corsa al re-commerce e al second-hand non è sempre la scelta migliore, se questo significa far fare il giro del mondo ai pacchi, con relative emissioni di CO2. Sono alcuni dei punti toccati da “Hey Fashion”, il report realizzato dalla Eileen Fisher Foundation in collaborazione con la società di consulenza Pentatonic.

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E’ un report interessantissimo, che prende in considerazione tutti gli aspetti della circolarità, fornisce delle indicazioni su come ridurre la produzione di rifiuti tessili e fa una mappatura attenta delle esperienze più interessanti a livello mondiale nel campo del riciclo, del riuso, dei nuovi materiali. Voglio subito smorzare il vostro entusiasmo: l’Italia è purtroppo praticamente assente da questo elenco. Il motivo è semplice: intorno al tema della circolarità stanno prendendo forma industrie in grado di gestire grossi flussi di materiali: per alcuni materiali e soluzioni è finita la fase della sperimentazione e si è entrati in quella della industrializzazione. Le nostre aziende forse si sono perse un po’ in questo passaggio, ma siamo ancora in tempo per recuperare, perché le potenzialità di questo mercato sono enormi.

Il report sottolinea che il 25% dei capi prodotti non viene mai venduto, ma finisce in discarica o diventa merce donata ai paesi del sud del mondo. Un altro 12% di materiali o tessuti vergini, viene invece disperso nelle sale di taglio. A questo si aggiunge l’enorme quantità di abiti usati che vengono spediti in Africa e in Asia. Sono gli Stati Uniti i più grandi esportatori di second-hand, probabilmente destinato alla discarica piuttosto che al mercato dell’usato. Gran Bretagna e Germania insieme superano di poco il volume esportato dagli Stati Uniti e se si fanno delle proporzioni con le dimensioni dei due Paesi il risultato non lascia indifferenti. Mettiamolo in positivo: in Europa il mercato delle materie prime seconde può dare grandi soddisfazioni.

E dove finiscono gli abiti usati che lasciano il Nord del mondo? Il primo importatore è l’Ucraina ( i dati sono del 2019 e quindi non sono influenzati dalla guerra), seguita da Pakistan e Ghana. Probabilmente l’Ucraina è stata quindi per anni la porta di accesso degli abiti usati al mercato dell’est Europa.

Un altro aspetto analizzato dal rapporto e connesso con il tema della circolarità è quello della decarbonizzazione. Secondo la ricerca promossa da Eileen Fisher Foundation nella fase di produzione dei materiali si rilasciano il 56% delle emissioni dell’intera filiera di produzione di un capo. Questo dato mi ha lasciata un po’ sorpresa, perché ho sempre letto indagini che indicavano nella produzione della materia prima la fase più impattante.

Se la produzione e il finissaggio dei materiale hanno un impatto così importante è facile capire come questo sia un tema centrale e fare delle scelte consapevoli non è per niente semplice. Quali aspetti si devono valutare? l’origine della materia prima, l’impatto della fase di trasformazione, la fase di produzione. E qui si inserisce il tema dei materiali riciclati, che per rappresentare una reale alternativa devono anche utilizzare tecnologie di riciclo che non siano impattanti.

Il pensiero vola subito al poliestere, che resta la fibra più utilizzata al mondo. Se raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di riduzione della temperatura di 1,5 ̊C è l’unica azione in grado di prevenire cambiamenti irreversibili e devastanti per la salute del pianeta, l'industria della moda deve investire di più sull’uso del poliestere riciclato. Questo dice “Hey Fashion”, che indica come necessario portare la quota di fibra o filamento riciclato meccanicamente (o equivalente) nel mercato del poliestere dal 14% al 90% entro il 2030. Anche utilizzando quello riciclato da PET, pur mettendo in evidenza la concorrenza che si sta creando con le filiere degli imballaggi. Secondo Eileen Fisher riciclare la plastica usata, che provenga dal PET, dai mari, da qualsiasi fonte, è prioritario, continuando ad investire in processi che permettano di creare filiere virtuose per il riciclo da abiti ad abiti. Ma la strada non è semplice.

C’è un grande divario di conoscenza su chi sono i riciclatori, cosa vogliono, di quali soglie di materiali hanno bisogno per produrre in maniera efficiente o quale debba essere il loro livello di purezza. C’è quindi la necessità di aprire un dialogo costruttivo tra l’industria e i brand, per definire strategie comuni ed evitare di disperdere energie in tante iniziative che sono poi magari destinate a non prendere campo.

L’ultima cosa che volevo segnalarvi del report è l’analisi fatta sulle certificazioni e committment più adottati dai brand. Ne sono stati intervistati 32, da Adidas a Burberry, GAP, Gucci, H&M, Hermes, Nike, Pangaia, Patagonia, Primark, ZARA, solo per citarne alcuni. Emerge che BCI, Leather Working Group e la carta delle Nazioni Unite sono le più comuni. Questo è un punto importante nell’analisi di “Hi Fashion”: combattere il greenwashing, fornire ai consumatori strumenti per comprendere le caratteristiche di quello che stanno acquistando, è centrale per creare quella coscienza del “comprare meno e meglio” necessaria per innescare un cambiamento reale. Chi ogni giorno lavora con certificazioni e committment sa che queste scelte vanno spesso nella direzione di selezionare gli impegni meno gravosi, che però possono far raggiungere un buon risultato in termini di comunicazione. Purtroppo.

SIAMO TUTTI NET ZERO E’ uscito da poco il report di Climate Watch Net Zero Tracker, che fotografa a livello mondiale aziende e i loro impegni di decarbonizzazione in tutti i settori. Gli Stati hanno negli ultimi tre anni hanno fatto una vera e propria corsa per definire i propri obiettivi climatici per la riduzione della CO2 e la stessa cosa hanno fatto le aziende. In realtà le aziende italiane hanno corso meno di quelle degli altri paesi, secondo quanto emerge dal rapporto.

Il rischio è che l’approccio “Net positive” diventi sono uno slogan e che le imprese si limitino ad accedere al mercato delle emissioni per compensare quelle emesse senza però mettere in campo cambiamenti strutturali. Leggete questo articolo di Valori.it se volete approfondire. In queste settimane sto ricevendo comunicazioni di tante aziende che aderiscono a committment promossi da soggetti diversi, definendo il proprio impegno alla riduzione delle emissioni. Bravi, ma chi misura? E basta un impegno o ci vuole anche un piano?

Prima di salutarvi volevo segnalarvi un articolo di The Guardian sulla corretta manutenzione del cashmere: gli articoli educativi adesso fanno notizia, perché dobbiamo apprendere tutti quei trucchi e quelle attenzioni che hanno permesso alle nostre nonne di mantenere in ordine i pochi capi che avevano. Mi riferisco alle nonne, perché quando si parla di consumo tante volte vengono citati solo dati sulle donne. In particolare ho letto una ricerca interessante dove si affermava che una donna degli anni 50 aveva nel proprio armadio circa 6 outfit all’anno: adesso quanti ne abbiamo?

Buona lettura.


Da leggere:

  1. Moda sostenibile: la mancanza di informazioni primo freno allo sviluppo davanti ai prezzi - Fashion Network

  2. La dolce rivoluzione sostenibile dell’Alta Moda - Linkiesta

  3. Dal metaverso all’inclusività, ecco i manager più ricercati del mondo del lusso - Pambianco

  4. La risorsa delle acque reflue che Prato ha imparato ad usare - Repubblica Green&Blue

  5. La moda a breve termine di Shein comincia a non piacere - Il Post


Dall’inizio dell’anno ho fatto interviste o fornito materiali ad almeno 20 studenti di corsi di laurea o master che hanno approcciato il tema della moda sostenibile da punti di vista diversi: comunicazione, marketing, prodotto, innovazione. Pochi di loro mi hanno inviato i loro lavori finiti, ma sono certa che alcuni di loro hanno fatto lavori interessanti.

Da settembre sul blog dedicherò una sezione alle tesi sulla moda sostenibile: se vi siete laureati da poco, una volta al mese ci sarà uno spazio per far conoscere il vostro lavoro, e magari creare qualche connessione utile. Il blog ha 150 mila visite all’anno, quindi può essere l’occasione per condividere con una community interessata al tema quello che avete fatto.

Se siete interessati/e scrivetemi a silvia@solomodasostenibile.it, sintetizzando il vostro lavoro in poche righe. Leggerò con attenzione e poi vi farò sapere se sarà pubblicato: in quel caso dovrete scrivere un articolo di circa 4/5 mila battute, accompagnato da qualche immagine e da una vostra bio. Cosa ne dite? vi piace l’idea?


E anche per oggi siamo ai saluti. La prossima settimana ci troviamo con l’ultima newsletter e poi io inizio a fare i compiti delle vacanze: voi che progetti avete?

Questa newsletter è frutto di un attento lavoro di ricerca. E’ un lavoro che svolgo in maniera autonoma e indipendente. Se vuoi supportarmi, offrimi un caffè.

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