#190 Sarà la due diligence a mettere in salvo la moda?
La newsletter di Solo Moda Sostenibile
E’ successo di nuovo: un provvedimento di amministrazione giudiziaria per contrastare il caporalato è stato preso dal Tribunale nei confronti di un brand del lusso. Le indagini non si fermano qui: secondo una indiscrezione di Reuters, sarebbero altri 12 i brand sottoposti a verifica e quindi potrebbero arrivare nuovi provvedimenti.
Al brand oggetto del provvedimento si contesta il modus operandi “colposamente alimentato dalla società, la quale non ha verificato la reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici, alle quali affidare la produzione e non ha nel corso degli anni eseguito efficaci ispezioni o audit per appurare in concreto le effettive condizioni lavorative e gli ambienti di lavoro”. Si legge nel provvedimento, che potete trovare qui, che di fatto sulle aziende fornitrici erano svolti solo controlli formali, dando vita «ad un processo di decoupling organizzativo (letteralmente: “disaccoppiamento”), in forza del quale, in parallelo alla struttura formale dell’organizzazione volta a rispettare le regole istituzionali, si sviluppa un’altra struttura, “informale”, volta a seguire le regole dell’efficienza e del risultato. In questo modo, la costante e sistematica violazione delle regole genera la normalizzazione della devianza, in un contesto dove le irregolarità e le pratiche illecite vengono accettate ed in qualche modo promosse, in quanto considerate normali»
Il punto è che di fatto l’azienda non ha fatto controlli efficaci per individuare e prevenire determinate situazioni di sfruttamento. Il fornitore principale ha affidato ad alcuni subfornitori il lavoro e proprio qui si sono manifestate le difficoltà.
Su questo caso è stato scritto moltissimo negli ultimi giorni e non voglio aggiungere altro. Vorrei invece provare a trovare delle soluzioni: vi invito a scrivermi se voi potete suggerire dei meccanismi di controllo efficaci sulla filiera, credo che sarebbe interessate aprire uno spazio di condivisione su queste buone pratiche.
Quando si parla di mappatura, prevenzione e mitigazione delle condizioni dell’impatto in relazione alle condizioni di lavoro, si sta parlando di fatto di fare una “due diligence”: ne abbiamo sentito parlare spesso negli ultimi mesi, mentre erano in corso le trattative per l’approvazione della direttiva europea, che ha faticato così tanto ad arrivare in fondo. E una volta approvata abbiamo scoperto che è di fatto applicabile a meno dell’1 per cento delle imprese europee.
Questi interventi del Tribunale di Milano invece ci mettono di fronte alla necessità di agire velocemente per mettere in pratica dei controlli efficaci sulla filiera. Ma come si deve fare? si devono eseguire le seguenti sei fasi di due diligence (come stabilito negli articoli 4 – 11 della Direttiva e nella Guida alla due diligence dell’OCSE). Le imprese dovranno:
Integrare la due diligence nella politica aziendale: implementare una politica che contenga almeno una descrizione del loro processo di due diligence sui diritti umani, un codice di condotta per i dipendenti e una descrizione delle misure adottate per attuare la due diligence .
Identificare effettivi o potenziali impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente: questi impatti potrebbero derivare dalle operazioni proprie dell’azienda o da qualsiasi impatto sui diritti umani derivante dalle sue catene di valore globali.
Prevenire, mitigare, cessare e minimizzare gli impatti effettivi, potenziali e negativi sui diritti umani e sull’ambiente: per prevenire danni, le aziende possono, ad esempio, effettuare gli investimenti necessari nei processi di gestione o di produzione, chiedere garanzie contrattuali ai partner diretti che garantiranno rispetto degli standard sui diritti umani e monitorare questa conformità. Laddove la prevenzione non è possibile, le aziende dovrebbero mitigare adeguatamente gli impatti attraverso azioni correttive (anche attraverso il pagamento di danni, compensi finanziari o non finanziari e altre forme di sostegno alle persone o comunità colpite).
Stabilire e mantenere una procedura di reclamo per le parti interessate, che devono essere in grado di presentare reclami se hanno preoccupazioni legittime riguardo ai diritti umani effettivi o potenziali e agli impatti negativi sull’ambiente nelle operazioni delle aziende o nelle loro catene del valore.
Monitorare l’efficacia della politica e delle misure di due diligence, effettuando valutazioni periodiche. Queste valutazioni si concentreranno non solo sulle attività proprie, ma anche su quelle dei partner della loro catena del valore.
Comunicare pubblicamente gli sforzi e i risultati della due diligence: le aziende dovranno pubblicare sul proprio sito web una dichiarazione annuale relativa alle loro attività. Il contenuto di questa dichiarazione sarà stabilito successivamente con un atto di esecuzione della Commissione Europea.
Tradurre questi punti in azioni concrete ed efficaci non è semplice. Come primo passo, andrebbe abbandonata la logica di effettuare solo controlli documentali e di fare controlli anche nelle aziende. Ma questi devono essere fatti da persone in grado di valutare la capacità produttiva e la presenza di tutte le fasi della lavorazione, così da evitare che entrino in gioco aziende terze, non dichiarate, che poi di fatto fanno buona parte del lavoro. Neutralizzare le filiere clandestine o dove c’è sfruttamento, porterà a un aumento dei costi di produzione: ma di fatto è inaccettabile che si crei del profitto utilizzando lavoratori che sono sottopagati per garantire certi livelli di profitto. Dal Tribunale di Milano è partito un monito importantissimo al mondo della moda, che nessuno può evitare di prendere in considerazione.
NO AI DAZI SUL COTONE IMPORTATO IN PAKISTAN
L’All Pakistan Textile Mills Association (APTMA) si è fermamente opposta all’intenzione del governo di imporre dazi sull’importazione di cotone nel Paese: l’associazione afferma che questa misura porrà un grave problema minaccia per il settore tessile, in particolare per le piccole e medie imprese (PMI) che dominano la catena del valore e porterà senza dubbio a gravi ripercussioni economiche.
Le importazioni di filati di cotone sono salite alle stelle da circa 2 milioni di kg nel luglio 2023 a 14 milioni di kg nel maggio 2024, indicando l’incapacità dei produttori di filati di competere con i prezzi internazionali.
“L’imposizione di dazi sul cotone avrà un grave impatto negativo sul settore delle PMI, compresa la produzione nazionale di filati e tessuti. La produzione tessile e di abbigliamento in Pakistan è altamente disaggregata. Pochissime aziende possiedono una piena integrazione verticale e i vantaggi dei regimi di importazione esenti da dazi come l’Export Facilitation Scheme (EFS) non si estendono all’intera catena del valore”, si legge nel comunicato dell’associazione
Ad esempio, un filatore non può importare nell’ambito dell’EFS perché il filato che produce passa attraverso diverse fasi di aggiunta di valore – come tessitura, lavorazione e tintura – prima di raggiungere l’esportatore finale. Secondo l’organizzazione sarebbero invece necessarie misure volte ad aumentare la produttività e la resa del cotone per migliorare i rendimenti degli agricoltori.
Il cotone è la materia prima primaria per il settore tessile, che rappresenta oltre il 50% delle esportazioni totali del Pakistan. L’industria consuma circa 14-16 milioni di balle di cotone all’anno. Tuttavia, la stagione in corso ha visto una significativa riduzione della coltivazione del cotone, esacerbando una situazione già disastrosa.
L'APTMA ha affermato che per la stagione in corso, l'area coltivata a cotone si è ridotta del 30-35%, ammontando a soli 4,415 milioni di acri rispetto ai 6,62 milioni di acri dell'anno scorso. Ciò rappresenta solo il 50-60% del fabbisogno di consumo del settore. Di conseguenza, il Pakistan dovrà importare una quantità di cotone significativamente maggiore rispetto allo scorso anno per soddisfare i requisiti di esportazione. La situazione è ulteriormente aggravata dalle sfide climatiche. Finora, circa 50.000 acri di piantagioni di cotone, che costituiscono il 9,0% del totale, sono stati danneggiati dal caldo anomalo nel Sindh, una delle province più fertili del paese.
GLI INGREDIENTI DELL’ABBIGLIAMENTO
Il designer industriale britannico Peter Gorse ha fatto durante la pandemia un lavoro molto interessante: ha sviluppato un’etichetta per i capi di abbigliamento prendendo spunto dalle etichette nutrizionali, presenti in ogni parte del mondo. Vogue Business ha raccontato questa storia e non potevo fare a meno di condividerla.
L’etichetta contiene informazioni su fibre e contenuto chimico, durata degli indumenti, perdita di microfibra, riciclaggio, fonti di carburante e retribuzione dei lavoratori tessili: tutto contenuto in un modello di etichetta che ormai siamo abituati a leggere sulle confezioni di cibo e che quindi ci risulta più familiare e comprensibile.
Superata la sorpresa per la veste grafica gradevole, leggerla lascia qualche perplessità. L’etichetta descrive un indumento con 45 grammi di sostanze chimiche per 100 grammi di tessuto, che contiene 112 sostanze chimiche sintetiche; il capo ha percorso 25.432 miglia attraverso la sua catena di fornitura e perderà 137.951 microfibre per lavaggio; e i suoi lavoratori tessili guadagnavano il 45% del salario dignitoso locale.
L’etichetta nutrizionale sul cibo è stata inserita in USA nel 1994, ma si è poi estesa a tutto il mondo. Ha avuto un effetto insperato: messi di fronte a quella trasparenza così facile da interpretare per i consumatori, i produttori alimentari iniziarono presto a riformulare i prodotti per ridurre i grassi saturi e il sodio, oltre ad aumentarne i contenuti più salutari come le fibre.
Gorse non pretende che la sua etichetta sia perfetta: ha ricercato attentamente le fonti, rifiutando dati difficili da quantificare come l’impronta di carbonio e l’uso dell’acqua. Qualcuno gli ha contestato la misurazione delle microfibre rilasciate durante il lavaggio, perché ad oggi è difficile avere un dato preciso. Però l’etichetta rende l’idea e raggiunge il suo obiettivo. Cosa ne pensate?
Mi fermo qui, anche se avrei altre cose da raccontarvi. Aggiungo soltanto che Austria, Finlandia, Francia e Paesi Bassi hanno chiesto all'Unione Europea di consentire agli Stati membri di penalizzare i giganti dell’ultra fast fashion, come Shein e Temu, per l'impatto dei loro prodotti.
I quattro Paesi hanno scritto un documento di discussione in vista del vertice del 17 giugno, quando i ministri dell'ambiente dovranno adottare la loro posizione su un'imminente revisione della direttiva quadro sui rifiuti dell'UE. Vi terrò aggiornati.
Intanto vi saluto e vi lascio al vostro caffè!
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Un aggiornamento da Prato. Martedì ci sarà una serata speciale, che sono stata chiamata a presentare, con mio grande piacere. Le aziende che fanno parte della filiera del cardato riciclato pratese hanno deciso di creare un marchio per garantire l’identità del prodotto, che proprio il 18 giugno sarà presentato ufficialmente. Ci sono già oltre 100 aziende interessate ad aderire. E’ il primo passo di un percorso che dovrebbe portare anche alla presentazione della richiesta di IGP per il cardato: l’indicazione geografica protetta può infatti essere applicata anche ai prodotti industriali, non solo in ambito alimentare.
Se leggete il programma, potete vedere che sarà anche una bella occasione per mettere insieme persone legate a questa città in tanti modi diversi.
E’ anche prevista una lettura di “Stracci”, ma non si tratta del documentario, naturalmente. Tommaso Santi, regista del documentario, è anche un autore teatrale e nel 2007 scrisse uno spettacolo che racconta la storia di due fratelli, che insieme ricordano il proprio passato. Fu messo in scena per 10 serate consecutive nel bellissimo magazzino del Masi, un cenciaiolo storico della città. Quel testo oggi è secondo me ancora più potente e verrà riproposto in forma di lettura nel corso della serata di martedì, da Valentina Banci e Andrea Bacci. Spero che ci saranno altre occasioni per farvelo ascoltare, è molto emozionante.
La serata di martedì 18 è solo su invito.
E’ arrivato il momento di salutarci. La prossima settimana usciranno dei contenuti nuovi sul sito: lunedì un articolo che è già pronto per essere pubblicato e poi in settimana uscirà anche un nuovo episodio del podcast. A metà luglio, dopo le fiere, la newsletter si prenderà una pausa, ma fino a quel momento ci sono tanti temi che voglio trovare il tempo di trattare. Così vi lascio con un po’ di letture per l’estate!
Scrivetemi, mi raccomando: silvia@solomodasostenibile.it
In merito al controllo dei fornitori, io sposterei la responsabilità e auspicherei un controllo "statale" o comunque al di sopra dei brand. Ogni azienda produttiva, per essere dichiarata tale e poter operare, dovrebbe ricevere una sorta di "patentino", "autorizzazione", rilasciata da un ente che verifica (periodicamente) il rispetto dei requisiti legali in ambito ambientale, di diritti dei lavoro e di salute e sicurezza (come ad esempio i gestori ambientali che devono essere autorizzati). Solo a seguito di tale autorizzazione (quindi cogente, e non volontaria come le varie ISO), l'azienda può lavorare. Il brand potrebbe accedere ad una sorta di database in cui verifica se il fornitore con cui vorrebbe collaborare è autorizzato (lui e suoi subfornitori, collegati a lui o presenti come aziende distinte). Questo eviterebbe ai vari brand l'onere di effettuare centinaia di audit e, oltretutto, permetterebbe alle aziende produttive di ricevere magari solo uno o due controlli autorizzativi all'anno, e non magari 10, se non di più, audit pressoché uguali, se i loro clienti sono 10 o più brand (perché i brand, purtroppo, non possono basarsi solo sulle eventuali certificazioni ISO in possesso del fornitore), ottimizzando quindi la gestione per tutti. Ma immagino che non si potrà arrivare mai ad una soluzione del genere.