In questi giorni sono stata a Londra, alla presentazione di una iniziativa sui deadstock lanciata dal British Fashion Council ma che sorprendentemente ha un’anima tutta italiana. La direzione è quella di ridurre gli sprechi e agire sui deadstock può portare a risultati interessanti, ma non è così semplice.
Si tratta di quei tessuti inutilizzati che sono stati acquistati dai brand e che giacciono in enormi magazzini, ma ci sono anche i tessuti delle aziende produttrici andati fuori collezione oppure mai consegnati a causa di problemi legati alla qualità o al colore. Sono materiali che potrebbero essere riutilizzati per la produzione di capi finiti, soprattutto dai designer e dai brand medio/piccoli, ma va ben definito il percorso di uscita dai magazzini e anche quello di rientro all’interno delle collezioni.
Il progetto sostenuto dal British Fashion Council coinvolge la start up londinese The Materialist, con due terzi delle founder italiane, e la Maeba, azienda storica che lavora con gli stock da decenni. Per i prossimi tre mesi nella prestigiosa Regent Strett sarà operativo uno show room che contiene 5 mila articoli della Maeba, dove saranno invitati i designer inglesi, che potranno visionarli e acquistarli. Non solo: il British Fashion Council ha promosso il progetto perché in quella sede sarà fatta una raccolta dati, che sarà poi elaborata da Quantis. Quanto emerso sarà alla base della proposta operativa che il Fashion Council presenterà al Governo inglese per agevolare l’uso dei deadstock, individuando gli ostacoli normativi e proponendo percorsi adeguati per promuovere il loro utilizzo sul territorio inglese. Durante il periodo in cui lo showroom sarà operativo, ci saranno seminari e workshop per fare anche un’opera di sensibilizzazione verso brand e designer, creando così un ecosistema favorevole all’utilizzo di questa categoria di prodotti, che da molti sono ancora considerati scarti di poco valore. Maeba ha intenzione di coinvolgere altre aziende italiane in questi eventi e condividere così questa opportunità di grande prestigio.
Il mercato degli stock non è nuovo per noi italiani: nei distretti le figure degli stockisti esistono da decenni. A un certo punto Maeba ha deciso di alzare l’asticella, ed è questo che ha portato l’azienda a collaborare con il Fashion Council. Infatti quattro anni fa Maeba ha creato un marchio Relivetex, per garantire la trasparenza e la tracciabilità di questi materiali. Si tratta di una certificazione basata su una norma ISO (la 14021, che in materia di Etichette e dichiarazioni ambientali regola le Asserzioni ambientali auto-dichiarate) che garantisce che questi materiali sono stati sottratti a processi di svalorizzazione e promossi a nuovi utilizzi, oltre a fornire informazioni sulla produzione dei tessuti.
E’ stata questa certificazione ad attirare l’attenzione del British Fashion Council, perché permette di mettere ordine in un mercato che oggi è abbastanza caotico.
In generale, chi usa i deadstock si aspetta di avere un lasciapassare speciale, quasi un’esenzione, dal dover fornire informazioni sull’utilizzo degli ausiliari chimici, la provenienza delle materie prime, il processo di lavorazione, la filiera di produzione.
Ma la situazione non è più accettabile e ci sono nuovi brand emergenti che utilizzano questi materiali che stanno creando le proprie regole per non rinunciare alla trasparenza. Ad esempio quando un tessuto diventa un deadstock? Per alcuni deve essere un materiale che è stato realizzato da almeno un anno. Un altro aspetto riguarda la storia produttiva del tessuto: le informazioni sulle materie prime e sul processo di lavorazione. Fino ad oggi i deadstock sono trattati sia dai brand che li accumulano che dalle aziende produttrici come dei materiali di scarto e sono archiviati in maniera approssimativa. Ma rivalorizzare questi tessuti richiede innanzitutto una catalogazione che permetta di ricostruire la loro storia, e questo è già più complicato.
Per i designer e i brand medi, gli stock possono rappresentare una bella opportunità. Innanzitutto sono facilmente disponibili e poi permettono di avere a disposizione tessuti anche di grande qualità, superando il problema dei minimi: le aziende che producono tessuti non possono produrre piccole quantità, perché avviare il processo di tessitura e finissaggio richiede uno sforzo logistico e tecnico importante. Per questo al di sotto di un certo limite di metri, non è possibile avere i tessuti richiesti, ma i dead stock superano questo ostacolo.
Sicuramente è più semplice immaginare una nuova vita per i tessuti rispetto agli abiti invenduti e partire da qui, stabilendo regole e policy, potrebbe dare uno slancio anche alla soluzione del problema più complesso degli abiti.
Secondo me resta anche da chiarire la qualificazione normativa dei deadstock: sono da considerarsi post-industrial textile waste, visto che sono dei semilavorati per l’industria della moda, oppure sono pre-consumer? Questo non è un punto di secondaria importanza, perché con la normativa sulla gestione dei rifiuti tessili che sta prendendo forma, trovarsi in una categoria piuttosto che nell’altra non è indifferente.
INTANTO IN GRAN BRETAGNA PROSEGUE LA BATTAGLIA CONTRO IL FAST FASHION Nel 2019 la Environmental Audit Committee inglese presentò il report “Fixing Fashion”, uno dei primi a individuare gli effetti del fast fashion sull’ambiente e sulle persone. Oltre a un’analisi del settore, che individuava meccanismi e pratiche dannose che poi negli anni successivi sarebbero state analizzate in maniera più approfondita, il report si concludeva con 17 raccomandazioni al Governo inglese per rendere il sistema moda più sostenibile. Il 1 maggio a Westminster si è fatto il punto sui cambiamenti avvenuti cinque anni dopo la presentazione di questo documento: nessuno, nè dal lato dei brand, nè dal Governo. Anzi. Il volume del fast fashion è aumentato, anche grazie all’affacciarsi sul mercato dell’ultra fast fashion.
Per questa la Environmental Audit Committee ha chiesto ai brand di presentare quali sono stati i progressi che hanno fatto negli ultimi cinque anni in campo ambientale e sociale, per rendere il loro business meno impattante. Sono stati invitati a partecipare all’incontro Matalan, TK Maxx, Asos, I Saw It First, Shein, Asda, John Lewis, Marks and Spencer, New Look, Next, Sainsbury’s e Tesco, oltre alle piattaforme di secondhand Ebay, Vinted and Depop. Gli unici presenti fisicamente sono stati H&M e Boohoo, che hanno accettato il confronto diretto. Per Boohoo, che ha circa 40 aziende fornitrici sul territorio britannico e che si è trovato a dover fare i conti con accuse pesanti per le gestione della catena di fornitura, la partecipazione è stato un atto di responsabilità importante.
Vogue Business ha riportato che “il deputato Webbe ha espresso preoccupazione per il fatto che i lavoratori tessili del Regno Unito siano soggetti alla moderna schiavitù – con contratti che stabiliscono che le ferie saranno pagate solo dopo 12 mesi di servizio, che il loro orario può essere ridotto a 10 ore settimanali (se ci fosse una flessione nel dell’economia o se il lavoro dei marchi e dei rivenditori diminuisce) e che i lavoratori sono costretti a lavorare più a lungo perché cercano di rispettare le scadenze dei marchi”. A quanto pare queste sono le condizioni riportate in alcuni contratti di brand del fast fashion con i fornitori inglesi e mi sembra incredibile.
Il Parlamento inglese è in fase di scioglimento e sulla base di quanto emerso, la Commissione stenderà un report che lascerà “in eredità” alla nuova Commissione.
E con questo vi saluto e vi lascio al vostro caffè!
E’arrivata la stagione dei bilanci di sostenibilità: cosa dobbiamo aspettare di trovarci, quali sono i tempi che stanno riscuotendo maggiore attenzione? Ci abbiamo riflettuto insieme Federica Marchionni, CEO di Global Fashion Agenda, ed io, all’interno della rubrica "Reflect" che scriviamo insieme ogni mese per Global Fashion Agenda. Partendo da due punti di osservazione diversi, cerchiamo di raccontare i numerosi cambiamenti in corso ed è sempre molto stimolante. Avete già letto la newsletter appena uscita? Potete leggerla qui.
Da leggere:
Le aziende familiari della moda si evolvono: sono più giovani, aperte e solide - Il Sole 24 Ore
Come Vinted sta battendo ogni record - NssMagazine
Chi può usare il marchio Vero Cuoio o Vera Pelle - Fashion United
Regolamento Ecodesign, cosa prevede il testo dopo l’ok del Parlamento Ue - EconomiaCircolare.com
Filiera della pelle in affanno. Schizza la domanda di cassa integrazione: +194% a febbraio - Pambianco
Domenica 5 maggio alle 17:30 a Porto Burci, provincia di Vicenza, durante lo swap party di CAPOGIRO! sarà proiettato STRACCI. Qui trovate il programma della manifestazione, molto interessante.
Sempre il 5 maggio, ma a Milano, ci sarà la presentazione del primo gioco di ruolo sulla moda sostenibile promosso dal collettivo Trama Plaza. Il gioco è stato creato da un team di donne creative, supportate da un team di professionisti, che le hanno aiutate a definire la modalità di gioco, le regole, il format. Io ho partecipato come consulente ed è stato molto divertente: non vedo l’ora di giocarci. Speriamo che presto il gioco sia disponibile per tutti!
La settimana che sta per iniziare per me è molto speciale, perché sarà inaugurato il nuovo spazio di SMS LAB, a Prato, in centro storico.
Ho tantissime idee per questo spazio, che vorrei diventasse un posto di condivisione di idee, di sperimentazione, di approfondimento. E finalmente potrò ospitare chi vuole venire a Prato a visitare il distretto!
Se avete delle idee da propormi, scrivete a silvia@solomodasostenibile.it.
Buon weekend!